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Le cinque rose di Jennifer - di Annibale Ruccello
 
 
Dove e Quando
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini 78 - Roma (RM)
Da MER 12 APRILE 2023 a DOM 16 APRILE 2023

Come
Evento per: Adulti, Giovani, Senior
Specifiche pagamento: Biglietto ridotto studenti e titolari di tessera BiblioPiù delle Biblioteche dei Castelli Romani (da richiedere a: promozione@teatrovascello.it)
Prenotazione: Si
Email di prenotazione: promozioneteatrovascello.it@gmail.com
Telefono di prenotazione: 065898031
Per informazioni
Tel: 065898031
 
Dal 12 al 16 aprile
Dal martedì al venerdì h 21 – sabato h 19 – domenica h 17
 
 
di Annibale Ruccello
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Durata: 90′
 
Jennifer è un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica continuamente Se perdo te di Patty Pravo alla radio che, intanto, trasmette frequenti aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere. Gabriele Russo affronta per la prima volta un testo di Ruccello – scegliendo il più simbolico, quello che nel 1980 impose il drammaturgo all’attenzione di pubblico e critica. Il regista ci preannuncia una messinscena dall’estetica potente, fedele al testo e, dunque, alle intenzioni dell’autore «ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà Ruccello stesso – racconta Russo – cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi». In scena, un inedito Daniele Russo, affiancato da Sergio Del Prete in un allestimento che restituirà tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo.
 
Note di regia
Se ci si ferma a pensare, l’unica scelta sensata è quella di non azzardarsi a toccare un testo come Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello. È una pietra miliare del teatro, un testo che quanto più lo si legge e approfondisce tanto più ti penetra, ti entra nell’immaginario, si cristallizza nei pensieri e si deposita nell’inconscio. Anche solo dopo averlo letto (caso raro poiché sappiamo che “il teatro non si legge”) Jennifer smette di essere il personaggio di un testo teatrale per farsi carne e ossa, sangue e sentimenti. Una persona viva, sempre esistita. Qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te, nei tuoi sentimenti, nella tua cultura, nei tuoi suoni, nel tuo immaginario. Qualcosa di ancestrale, di antico e moderno, che risuona tutti i giorni dentro di noi, su un palcoscenico, nei vicoli della città o nelle pagine di un libro. Jennifer è il diavolo e l’acqua santa. Eterna contraddizione. Paradigma dell’ambiguità napoletana.
Questa sensazione di appartenenza è quella che soltanto i personaggi dei grandi classici riescono a restituire, quelli che, come fantasmi, si aggirano quotidianamente nelle segrete di tutti i teatri, anche quando in scena si recitano testi contemporanei.
È un testo che è Napoli stessa e dunque punto di riferimento, mito e desiderio di tutta la Napoli teatrale che ne conosce le battute a memoria. È un testo che, come tutti i classici ma in modo forse ancor più radicale, vediamo anche attraverso quello che è già stato, nella voce e nei corpi di chi già lo ha interpretato, primo fra tutti Ruccello stesso. Questi elementi, però, sono anche quelli che ci spingono a rimetterlo in scena, ad accostarci al suo mito, al suo fantasma, con rispetto ma anche liberi da sovrastrutture, poiché apparteniamo alla generazione che non ha vissuto Ruccello negli anni in cui era in vita, non abbiamo vissuto il lutto della sua prematura scomparsa: pertanto, scriviamo su di noi attraverso di lui. Per farlo, ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà l’autore stesso, cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi. Ad esempio, Anna, il travestito che va a trovarla a casa, chi è? Una proiezione di Jennifer? Il suo inconscio? L’assassino del quartiere? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Quel che accade è vero o è tutto nell’immaginario di Jennifer? Ecco perché nella nostra messinscena Anna è presente sul palco tutto il tempo dello spettacolo, osserva Jennifer dall’esterno, si aggira come uno spettro intorno alla casa (l’isola) su cui Jennifer galleggia e vive la sua intimità. È il suo specchio. Queste domande, queste sospensioni sostengono l’atmosfera fra il thriller ed il noir tanto cara a Ruccello, che noi cercheremo di amplificare al fine di creare quella tensione che richiede un testo fatto di telefonate e attese. Un testo che “rimanda” a Pinter o a Beckett…Confesso di aver immaginato anche di metterlo in scena come Giorni Felici, con la sola testa di Jennifer che fuoriusciva da un telo che avrebbe rappresentato il Vesuvio. Ma poi… perché? I temi e i livelli di lettura non sono univoci, non possono essere ingabbiati ed intellettualizzati. Le cinque rose di Jennifer racconta di due travestiti napoletani ma racconta anche e soprattutto la solitudine, la solitudine che è il rovescio della medaglia della speranza che Jennifer mantiene dentro di sé fino alla fine e, dal mio punto di vista, oggi racconta con forza anche la condizione dell’emarginato, quella di chi si deve nascondere. Ecco perché in questa nostra messinscena Jennifer al suo ingresso in casa non vestirà panni che dichiarano la sua condizione femminile ma si nasconderà in abiti apparentemente maschili, trasformandosi solo nell’intimità casalinga, in cui è libera di essere o di provare a essere. La trasformazione è un tema centrale della nostra messinscena: il travestire più che il travestito, il che ci lega anche alla città ed ai mille modi in cui essa si “copre” e “agghinda”. Jennifer si traveste, come un attore, come Napoli. Jennifer si trasforma, come un attore, come Napoli. È fragile, come un attore, come Napoli. Prova, come un attore, non come Napoli, che non ci prova nemmeno.
L’estetica della messinscena, sarà nel segno del Kitsch, un aspetto che Ruccello tiene ad evidenziare fin dalle prime didascalie, che rimanda a uno stile e a un linguaggio specifici. Per spiegarmi meglio, prendo a prestito le parole di Kundera, secondo il quale «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» è un mondo di sentimenti, dove vige la dittatura del cuore e, nel caso di Jennifer, la solitudine. Le restano solo gli oggetti e le fantasie a cui aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto, nelle mancanze, nelle ansie, nell’angoscia. L’estetica del Kitsch è finzione, così Jennifer finge con gli altri e con sé stessa fino alle estreme conseguenze, respinge dal proprio campo visivo ciò che è essenzialmente inaccettabile. In tal senso è una vera attrice, perché finge talmente bene da essere vera.
 
Gabriele Russo
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Dal 12 al 16 aprile
Dal martedì al venerdì h 21 – sabato h 19 – domenica h 17
 
 
di Annibale Ruccello
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Durata: 90′
 
Jennifer è un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica continuamente Se perdo te di Patty Pravo alla radio che, intanto, trasmette frequenti aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere. Gabriele Russo affronta per la prima volta un testo di Ruccello – scegliendo il più simbolico, quello che nel 1980 impose il drammaturgo all’attenzione di pubblico e critica. Il regista ci preannuncia una messinscena dall’estetica potente, fedele al testo e, dunque, alle intenzioni dell’autore «ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà Ruccello stesso – racconta Russo – cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi». In scena, un inedito Daniele Russo, affiancato da Sergio Del Prete in un allestimento che restituirà tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo.
 
Note di regia
Se ci si ferma a pensare, l’unica scelta sensata è quella di non azzardarsi a toccare un testo come Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello. È una pietra miliare del teatro, un testo che quanto più lo si legge e approfondisce tanto più ti penetra, ti entra nell’immaginario, si cristallizza nei pensieri e si deposita nell’inconscio. Anche solo dopo averlo letto (caso raro poiché sappiamo che “il teatro non si legge”) Jennifer smette di essere il personaggio di un testo teatrale per farsi carne e ossa, sangue e sentimenti. Una persona viva, sempre esistita. Qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te, nei tuoi sentimenti, nella tua cultura, nei tuoi suoni, nel tuo immaginario. Qualcosa di ancestrale, di antico e moderno, che risuona tutti i giorni dentro di noi, su un palcoscenico, nei vicoli della città o nelle pagine di un libro. Jennifer è il diavolo e l’acqua santa. Eterna contraddizione. Paradigma dell’ambiguità napoletana.
Questa sensazione di appartenenza è quella che soltanto i personaggi dei grandi classici riescono a restituire, quelli che, come fantasmi, si aggirano quotidianamente nelle segrete di tutti i teatri, anche quando in scena si recitano testi contemporanei.
È un testo che è Napoli stessa e dunque punto di riferimento, mito e desiderio di tutta la Napoli teatrale che ne conosce le battute a memoria. È un testo che, come tutti i classici ma in modo forse ancor più radicale, vediamo anche attraverso quello che è già stato, nella voce e nei corpi di chi già lo ha interpretato, primo fra tutti Ruccello stesso. Questi elementi, però, sono anche quelli che ci spingono a rimetterlo in scena, ad accostarci al suo mito, al suo fantasma, con rispetto ma anche liberi da sovrastrutture, poiché apparteniamo alla generazione che non ha vissuto Ruccello negli anni in cui era in vita, non abbiamo vissuto il lutto della sua prematura scomparsa: pertanto, scriviamo su di noi attraverso di lui. Per farlo, ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà l’autore stesso, cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi. Ad esempio, Anna, il travestito che va a trovarla a casa, chi è? Una proiezione di Jennifer? Il suo inconscio? L’assassino del quartiere? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Quel che accade è vero o è tutto nell’immaginario di Jennifer? Ecco perché nella nostra messinscena Anna è presente sul palco tutto il tempo dello spettacolo, osserva Jennifer dall’esterno, si aggira come uno spettro intorno alla casa (l’isola) su cui Jennifer galleggia e vive la sua intimità. È il suo specchio. Queste domande, queste sospensioni sostengono l’atmosfera fra il thriller ed il noir tanto cara a Ruccello, che noi cercheremo di amplificare al fine di creare quella tensione che richiede un testo fatto di telefonate e attese. Un testo che “rimanda” a Pinter o a Beckett…Confesso di aver immaginato anche di metterlo in scena come Giorni Felici, con la sola testa di Jennifer che fuoriusciva da un telo che avrebbe rappresentato il Vesuvio. Ma poi… perché? I temi e i livelli di lettura non sono univoci, non possono essere ingabbiati ed intellettualizzati. Le cinque rose di Jennifer racconta di due travestiti napoletani ma racconta anche e soprattutto la solitudine, la solitudine che è il rovescio della medaglia della speranza che Jennifer mantiene dentro di sé fino alla fine e, dal mio punto di vista, oggi racconta con forza anche la condizione dell’emarginato, quella di chi si deve nascondere. Ecco perché in questa nostra messinscena Jennifer al suo ingresso in casa non vestirà panni che dichiarano la sua condizione femminile ma si nasconderà in abiti apparentemente maschili, trasformandosi solo nell’intimità casalinga, in cui è libera di essere o di provare a essere. La trasformazione è un tema centrale della nostra messinscena: il travestire più che il travestito, il che ci lega anche alla città ed ai mille modi in cui essa si “copre” e “agghinda”. Jennifer si traveste, come un attore, come Napoli. Jennifer si trasforma, come un attore, come Napoli. È fragile, come un attore, come Napoli. Prova, come un attore, non come Napoli, che non ci prova nemmeno.
L’estetica della messinscena, sarà nel segno del Kitsch, un aspetto che Ruccello tiene ad evidenziare fin dalle prime didascalie, che rimanda a uno stile e a un linguaggio specifici. Per spiegarmi meglio, prendo a prestito le parole di Kundera, secondo il quale «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» è un mondo di sentimenti, dove vige la dittatura del cuore e, nel caso di Jennifer, la solitudine. Le restano solo gli oggetti e le fantasie a cui aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto, nelle mancanze, nelle ansie, nell’angoscia. L’estetica del Kitsch è finzione, così Jennifer finge con gli altri e con sé stessa fino alle estreme conseguenze, respinge dal proprio campo visivo ciò che è essenzialmente inaccettabile. In tal senso è una vera attrice, perché finge talmente bene da essere vera.
 
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